Nel giugno del 1989 scomparve una delle figure più affascinanti del Novecento, l’imam Khomeyni, guida politica e spirituale della Rivoluzione islamica iraniana del 1979. Questo grande intellettuale, sapiente e gnostico, ha saputo coniugare impegno politico, mistico ed etico come pochi, attirando l’attenzione di persone di diverse culture in tutto il mondo.
Quando si chiede agli studiosi, chi sia stato il più importante personaggio politico del Novecento, le risposte, in base alle varie sensibilità, potrebbero essere molto diverse. Normalmente, i nomi delle guide politiche sono collegati a degli avvenimenti storici epocali e a dei cambiamenti sociali senza precedenti. Nel linguaggio politico, una svolta sociale, economica, politica, giuridica, culturale e spirituale senza precedenti è definita come “rivoluzione”. Quando ero un liceale, ebbi la fortuna di leggere un libro di René Guénon dal titolo suggestivo: La crisi del mondo moderno (1). La prefazione del libro era stata curata da Julius Evola, che in quell’occasione descrisse in modo esemplare il concetto di “rivoluzione”. Secondo Evola la parola “rivoluzione” può avere due significati: uno “esteriore” ed uno “nascosto”. Il primo significato è quello comunemente ritenuto valido, ovvero un “cambiamento brusco e violento della struttura politica e sociale dello Stato” (2). Ma il pensatore italiano si concentrò soprattutto sul significato “esoterico”, ovvero quello legato all’interpretazione di “rivoluzione” non in un ambito politico e “mondano”, ma spirituale, legato, per certi aspetti, alla “rivoluzione” dei corpi celesti. In questo senso, la “rivoluzione” è un percorso che inizia in un punto specifico, e dopo il compimento di un percorso ordinato e armonioso, si conclude nello stesso punto di partenza (come ad esempio, i moti di “rivoluzione” della Luna intorno alla Terra, o della Terra intorno al Sole). Quindi una “rivoluzione” che premia non il “cambiamento”, radicale o meno, ovvero una “modernizzazione”, bensì una “rivoluzione” nel solco della “tradizione”. Con questo punto di vista, una vera rivoluzione non consiste solo in un cambiamento della struttura sociale e politica, come lo sono state la Rivoluzione francese del 1789 o quella americana di poco precedente, ma soprattutto il “ritorno” ad un punto di partenza mistico e spirituale. In questo senso, l’Origine di tutto è l’Essere Primordiale, lo Spirito di Dio. Se questa è l’ottica gnostica per un’analisi completa del significato di rivoluzione, allora l’unica “vera” rivoluzione novecentesca è stata quella islamica in Iran, nel 1979. E se volessimo fare il nome di un personaggio politico che ha cambiato le sorti dell’umanità nel XX secolo, saremmo costretti a fare il nome della guida di quella rivoluzione iraniana, l’Ayatollah (3) Ruhollah (4) Khomeyni.
In questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta nel giugno del 1989. L’evento funebre rappresentò uno degli spettacoli sociali e spirituali più importanti del Novecento; infatti, quando agli iraniani arrivò la notizia della morte del loro amato “imam” (5), iniziò un movimento spontaneo, da diverse zone del Paese e della capitale Tehran, di milioni di individui verso i luoghi della vita della loro guida, dalla sua umile dimora a Jamaran, nella periferia settentrionale della capitale iraniana, fino al cimitero “Beheshte Zahra”, dalla parte opposta di Tehran. Il viaggio mistico e politico dell’imam Khomeyni, almeno dal 1979, era iniziato proprio in questo cimitero, dove egli era andato, appena tornato dall’esilio all’estero, per commemorare i martiri della rivoluzione. Anche questo processo “rivoluzionario”, nel senso evoliano del termine, di ritorno al punto di partenza, dimostra la grandezza dell’Ayatollah Khomeyni. Ma egli non era solo un uomo politico, che presentando un modello spirituale, tradizionale e teocentrico aveva sconvolto il mondo bipolare di allora, basato sull’apparente contrapposizione di due ideologie moderne e laiche (se non atee) quali il capitalismo liberale e il marxismo, per certi aspetti “due facce della stessa medaglia” (6).
L’imam Khomeini: “hakîm” del nostro tempo
Spesso in Occidente si parla delle idee politiche dell’Ayatollah Khomeyni, ma si trascura il fatto che egli, prima di essere un uomo politico, era un grande gnostico, un filosofo, un giurista, un poeta e un artista. In ambito iranico, i sapienti dell’antichità erano chiamati “hakîm”; l’appellativo di hakîm (saggio) veniva concesso agli scienziati che avevano il pregio di essere dotti in diversi ambiti, non solo, ad esempio, in filosofia, teologia, giurisprudenza o nelle scienze sperimentali, ma in tutte le scienze contemporaneamente. Per esempio, Avicenna (980-1037), nativo della regione del “Grande Khorasan” (Asia centrale) e morto a Hamadan (odierno Iran occidentale), era soprannominato appunto “hakîm” perché oltre a essere un filosofo di altissimo rango era anche un noto e famoso medico (celebre il suo libro “Il Canone”, considerato all’avanguardia anche in Europa fino a tutto l’Ottocento). Dire quindi che l’imam Khomeyni sia stato un “hakîm” del nostro tempo non è un’esagerazione, visto che egli era competente in diverse scienze. Nei suoi libri e nei suoi discorsi si rintracciano infatti aspetti importanti delle sue conoscenze, anche se l’Ayatollah, per via di una grande umiltà, non amava esibire troppo il proprio sapere. La sua umiltà era una delle caratteristiche della sua grandezza. In un suo discorso disse:
“Lo giuro su Dio, io non ho ancora avuto l’onore di eseguire due rak‘at (7) di preghiera per la causa di Dio, ma tutto quello che faccio, purtroppo, è per amore del mondo”.
Una frase del genere, detta da un uomo qualunque non sarebbe nulla di clamoroso. Ma se a proferirla è un uomo colto, sapiente, mistico di livello immenso come l’imam Khomeyni, si può comprendere l’umiltà di questo “rivoluzionario”, non solo per questioni politiche, ma principalmente per la sua forza spirituale, che ha affascinato molte persone, amici e nemici, tutti concordi sull’immensità dell’”imam della comunità” (8).
Il grande “jihâd”
L’aspetto in assoluto più interessante dell’insegnamento dell’imam riguarda il fatto di coniugare l’impegno sociale e politico con l’etica e la morale. In un’epoca in cui si parla tanto di “Stato laico”, l’imam rivendicava con forza la necessità che la politica non si dividesse dall’etica, in quanto la militanza senza etica si trasforma spesso, come la storia del Novecento ci insegna, in massacri, guerre e distruzione. Ovviamente anche la religione può essere accompagnata da violenza, ma l’esperienza insegna che senza etica, lo sterminio è una cosa normale. Le guerre mondiali nel XX secolo, che hanno visto lo scontro tra ideologie “moderne” e “laiche”, hanno lasciato sul campo decine di milioni di vittime, cosa che le guerre di religione non avevano mai fatto, almeno per ciò che concerne la quantità dei morti. L’imam Khomeyni amava spesso ripetere una tradizione del profeta Muhammad:
“Torniamo vincitori da un piccolo jihâd, e ci apprestiamo a combattere un grande jihâd”. (9)
Secondo l’interpretazione dell’imam, in questa tradizione il Profeta dell’Islam ha voluto sottolineare come la guerra propriamente detta, l’impegno politico e sociale, siano cosa secondaria rispetto alla “grande guerra” che ogni essere umano deve intraprendere per controllare i propri istinti animali che lo allontanano dalla Via di Dio. Un impegno politico senza l’autocontrollo porterebbe infatti l’uomo su una via già percorsa da molti famosi “rivoluzionari” che prima di ottenere il potere si comportano in modo impeccabile, ma una volta preso il controllo della “cosa pubblica” il loro comportamento diviene addirittura peggiore dei loro predecessori. Il caso emblematico è la Rivoluzione francese, contraddistinta da grandi violenze e usurpazioni, in nome della “Dea Ragione”. I giacobini, a forza di massacrare i loro oppositori, finirono per essere più odiati del monarca dispotico che avevano in precedenza combattuto. Nel pensiero dell’imam, quindi, lo sforzo mistico per raggiungere uno stato di autocontrollo quasi totale (grande jihâd) è più importante della politica, almeno intesa in senso secolare. Più volte l’Ayatollah ha ribadito la sua totale convinzione riguardo a ciò; non solo in ambito politico, ma anche per le conoscenze scientifiche. Egli in un famoso discorso disse:
“La scienza deve essere accompagnata dall’etica; una scienza senza etica è pericolosissima. Se dovessi scegliere tra le conoscenze scientifiche senza l’etica o l’etica senza la conoscenza, sceglierei sicuramente la seconda via”.
Come non condividere una tale analisi, alla luce dei massacri compiuti per mezzo ed in nome di una scienza “moderna” che non è accompagnata da un’etica a misura d’uomo? Tale questione, sollevata da questa grande figura di “rivoluzionario” misconosciuta in Occidente, resta a tutt’oggi di fortissima attualità.
NOTE:
(1) René Guénon, La crisi del mondo moderno, (trad. it.) Edizioni Mediterranee, Roma 1972.
(2) Giuseppe Pittano, Dizionario italiano, Gulliver, Chieti 1995.
(3) Quella di Ayatollah, letteralmente “segno di Dio”, è la più alta carica della gerarchia del clero in ambito islamico sciita.
(4) Ruhollah, il nome di “battesimo” dell’Ayatollah Khomeini, vuol dire letteralmente “Spirito di Dio”, e in ambito islamico è il soprannome di Gesù Cristo.
(5) Nell’islam sciita, il concetto di “imam” (letteralmente “colui che sta avanti”) implica non solo, come in ambito sunnita, la persona che guida la preghiera congregazionale o un esperto di scienze islamiche, ma soprattutto la guida politica e spirituale della comunità dopo il profeta Muhammad, ovvero i dodici “imam immacolati” della tradizione sciita (per questo gli sciiti sono anche definiti “duodecimani”). Nel caso dell’Ayatollah Khomeyni, però, rappresenta più che altro un titolo che vuole sottolineare, da un lato, la grandezza della personalità dell’imam, dall’altro, il forte legame spirituale e affettivo che lo legava alla sua gente.
(6) Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Marsilio, Venezia, 2002.
(7) La “salât”, l’orazione rituale islamica, obbligatoria per i musulmani e da eseguirsi cinque volte al giorno in momenti stabiliti in base al movimento apparente del sole, è composta da un numero variabile, a seconda della preghiera, di “unità di misura” definite “rak‘at”, che a loro volta comprendono una serie prestabilita di formule e movimenti. Ad esempio la preghiera del mattino è composta da due rak‘at, quella di mezzogiorno da quattro rak‘at ecc. Dire di non aver effettuato neanche due rak‘at per la causa di Dio, vuol dire di non essere degno di un certo rango elevato. Quanta umiltà in questo grande uomo! Cosa dovremmo dire allora noi persone comuni, che non appena compiano un’azione positiva pensiamo di aver raggiunto chissà quale “stazione divina”… Non a caso un grande sapiente dell’antichità come Socrate diceva: “L’unica cosa che conosco è che non conosco nulla”.
(8) Uno dei tanti appellativi dell’Ayatollah Khomeyni (in persiano “emam-e ommat”).
(9) Gli “ahâdîth”, ovvero le tradizioni e i racconti riferiti all’”esempio virtuoso” del Profeta Muhammad, sono tra le principali fonti delle scienze islamiche in generale e del diritto islamico (“fiqh”) in particolare. Questa specifica tradizione è riferita ad una battaglia condotta dai musulmani di Medina contro i politeisti meccani, nella quale la fazione del profeta Muhammad aveva prevalso. Il Profeta vedendo molta allegria e anche un certo atteggiamento vanaglorioso da parte dei suoi soldati, pronunciò questa frase per far capire che la guerra contro i nemici è nulla in confronto alla battaglia per l’autocontrollo, quella contro il proprio ego. Sul concetto di “jihâd” poi andrebbero dette molte altre cose, ma qui bisogna sottolineare come spesso in Occidente vi sia una traduzione sbagliata di questo termine. Letteralmente “jihâd” vuol dire “sforzo”, inteso come “sforzo per la causa di Dio”; qualsiasi opera che venga posta in essere con l’intento di compiacere il creatore è “jihâd”, dunque non solo la guerra contro un ipotetico nemico della comunità islamica che abbia intrapreso un’azione militare contro i musulmani, ma anche e soprattutto questioni come scrivere un libro per compiacere il Creatore, giocare con i propri figli per amore del Compassionevole, parlare gentilmente con le persone come segno di devozione all’Altissimo, sono tutte delle forme di jihâd. Anzi, di “grande jihad”.